Calpestare la memoria. Il paradosso del “partito della Nazione”.
maria paola patanè
Vittoria (RG) Sicilia – 27/10/2014 – Quel che stupisce alquanto, all’indomani della doppia performance del Pd diviso tra Leopolda e piazza San Giovanni, è l’eccessiva semplificazione dei termini del problema.
Di là i “reduci”, di qua gli innovatori. Di là i nostalgici conservatori, di qua i moderni progressisti.
Di là il 25 per cento, di qua il 41 per cento. Di là l’inevitabile sconfitta, di qua la naturale vittoria.
Sappiamo bene come la scelta consapevole di semplificare al massimo qualunque questione, tracciando con il gesso una linea verticale a separare i buoni e i cattivi, sia il modo ideale per averla vinta sulle menti più elementari, più malleabili, più acritiche.
E’ dovere di ognuno, quindi, mettere in moto tutta la capacità di analisi di cui dispone per chiedersi se sia legittimo semplificare la realtà fino a questo punto, o se non sia piuttosto il caso di sollevare obiezioni e proporre una lettura del contesto meno ovvia, scontata e forse fuorviante di quella che ci è stata offerta tra sabato e domenica scorsi.
Il Partito della Nazione che piace a Renzi è un Pd tutto nuovo, veloce, smart, inclusivo, dove le porte sono aperte a tutti: da Madre Teresa di Calcutta a Che Guevara, per dirla alla Jovanotti.
E infatti ci trovi dentro qualunque cosa: finanzieri d’assalto, professionisti rampanti, imprenditori ambiziosi, politici emigrati dalle più diverse formazioni politiche (da Ncd a Sel, da Scelta civica a Cinque stelle), intellettuali di grido, giornalisti, economisti, registi, attori e quant’altro.
Quelli che hanno abbracciato il neoliberismo senza se e senza ma; quelli che devono promuovere l’impresa e non penalizzare il capitale per incoraggiare la crescita; quelli che se i diritti dei lavoratori risultano un impedimento allo sviluppo, meglio sacrificarli per il bene di tutti.
Dall’altra parte -quelli della Cgil di Camusso e Landini e della cosiddetta minoranza Pd di Civati e Fassina- ci trovi i vecchi lavoratori della fabbrica, i pensionati, i cassintegrati. Insomma quelli, a detta di Renzi, che “cercano la fessura nello smartphone per infilarci il gettone”.
Quelli vecchi, superati, che difendono l’articolo 18 come un comandamento divino; quelli antichi, che antepongono i diritti dei lavoratori alle istanze di modernità richieste dai tempi; quelli sorpassati, che chiedono l’estensione delle tutele a tutte le categorie di lavoratori e non il loro restringimento.
Ma questa è una lettura troppo semplice della realtà dei fatti, alla quale neppure un bambino presterebbe fede.
E allora dov’è l’errore? Dov’è il grande equivoco, il fraintendimento, la perdita di coscienza che minaccia non solo l’identità del Pd, ma il futuro dell’intero paese?
Molto probabilmente sta nel fatto che Renzi, a dispetto di quanto afferma continuamente, con toni veementi e talora anche aggressivi, non abbia ancora piena consapevolezza del fatto che il tradizionale concetto di “liberismo” e di “pari opportunità sociali” è tramontato da un bel pezzo.
<Qualche decennio fa> osservava lucidamente Alfredo Reichlin qualche giorno addietro su Repubblica< il sistema non era certo ugualitario ma in compenso funzionava ancora “l’ascensore sociale” per cui il povero di oggi poteva diventare, se intelligente e laborioso, il ricco di domani. Ben altre sono oggi le logiche dell’economia finanziaria in cui siamo immersi: l’economia del debito e delle grandi speculazioni del denaro fatte con il denaro. Lasciamo stare le dispute tra economisti. Un politico serio non può fingere di non vedere questa gigantesca ondata di denaro che non rende conto a nessuno e che sta percorrendo il mondo arricchendo enormente una ristretta oligarchia ma creando al tempo stesso nuove povertà>.
Ecco, la domanda vitale che oggi un partito di centro-sinistra italiano ed europeo dovrebbe porsi è proprio questa: in quale direzione devo definire la mia funzione storica e riformista?
Devo avallare le odierne logiche dell’economia finanziaria neoliberista, che non tollera lacci e impedimenti al suo corso, a costo di penalizzare i diritti dei lavoratori, o devo piuttosto rappresentare la memoria di tutte le lotte che hanno condotto alla conquista di quei diritti, e farne carne e sostanza della mia azione di governo? Certamente applicando nuove categorie rispetto a quelle classiste superate dai tempi, ma riconoscendo e rispettando il significato vitale che le acquisizioni di quei diritti hanno rappresentato e rappresentano per l’intera società?
La memoria, Renzi, la memoria. E’ un esercizio vitale al quale tutti dovrebbero essere abituati.
La memoria consente di non dimenticare le battaglie contro lo sfruttamento dei lavoratori, la lotta per i loro diritti elementari (articolo 18 compreso), in una parola per il riconoscimento della “dignità della persona”.
E intelligenza politica significa proprio capacità di conciliare nuove istanze di modernità senza tuttavia uccidere le sacrosante acquisizioni che appartengono alla storia di un partito che si definisce di sinistra riformista.
E in che cosa consisterebbe altrimenti essere una sinistra moderna, se non in questo?
Neoliberismo, modernità e smartphone. Principi fondamentali, diritti per tutti e gettoni telefonici.
Se non si riuscirà ad operare un’efficace e costruttiva sintesi tra entrambe le esigenze, non si vede (né gli elettori lo vedranno quando sarà il momento di votare) cosa distingua il Pd da un qualsiasi partito di centrodestra. Quale sia la sua vera identità. Un partito che dovrebbe essere progressista ma allo stesso tempo fedele e difensore di tutto quello che è stato nel passato per slanciarsi con energia verso un futuro pieno di incognite e per questo più che mai bisognoso di punti fermi.
Perché gli uomini e i leader passano, ma i valori di riferimento restano. Devono restare.
Ma tutto ciò alla Leopolda sembra essere stato dimenticato. Si è abdicato al compito di costruire un partito che fa incontrare forze, culture, istanze, e memorie di generazioni diverse.
Si è buttata al mare una ricchezza incommensurabile, ostinandosi nel rifiuto di confrontarsi con quei “corpi intermedi” che si chiamano sindacati, categorie sociali, lavoratori, disoccupati, precari, opposizione. Bollandoli come vecchi e superati. Reduci, nostalgici, conservatori. Eppure portatori di quella memoria di lotte e di conquiste senza la quale, smemoratamente, si smarrirà la strada.
Col conseguente, quasi inevitabile, rischio di una scissione e dello sfascio di un partito che si propone come guida della nazione, ma che scelleratamente dimentica il suo passato e rischia di affondare nella pochezza dei 140 caretteri dei suoi modernissimi tweet.