Acate. “C’era una volta il Castello dei Principi di Biscari”
Salvatore Cultraro, Acate (Rg), 22 febbraio 2024.- Spesso, in questi ultimi anni, mi è capitato di varcare la soglia del Castello dei Principi di Biscari, per la visita di mostre di pittura o, per assistere a qualche sporadico evento, da “ospite” e non più da quasi “padrone di casa” pur non avendo nessun legame di parentela con la famiglia principesca dei “Paternò Castello”. Dopo aver considerato quel luogo, per circa 25 anni, quasi la mia seconda casa avendo trascorso più tempo tra quelle “turrite mura” che nella mia umile residenza ufficiale, essendo, insieme ad altri amici, l’organizzatore ed il gestore di eventi culturali di vario tipo e della struttura in se, prima di essere “defenestrati” con l’alibi del Covid e del Dissesto finanziario dell’Ente Comune. Dicevo che quando ultimamente mi capita di entrare nel maniero, anche se sinceramente per motivi affettivi quando posso cerco di evitarlo, vedendolo così miseramente ridotto mi scendono quasi le lacrime. Il nobile edificio, dopo i lavori di restauro del 2000 era quasi ritornato agli antichi splendori, sprofondando nuovamente, dopo circa un ventennio di “gloria” nella più totale decadenza, causa l’incuria umana e la cronica carenza di fondi. Uno dei luoghi più belli e suggestivi di Acate che l’emerito e compianto parroco, Don Rosario Di Martino, nella sua opera edita nel 1996, “Biscari e il suo Martire che sorride”, dando spazio a tanta pittoresca “fantasia” così lo descrive. ”In questo spazio piuttosto tranquillo, presi dalla suggestione della bellezza del luogo, si è inclini a cullare nella fantasia immagini di tempi che furono, quando tutt’intorno era uno sciamare di servi, umili vassalli addetti alla custodia ed alla manutenzione del castello, soldati, alabardieri, guardie, che agli ordini del capitano si muovevano come pedine su di una grande scacchiera. Sembra di sentire lo scalpitio dei cavalli reduci, con i propri cavalieri, da una battuta di caccia e soprattutto, con gli occhi della fantasia, sembra di vedere Lui, il Principe che, superbo nell’incedere, sapeva sorridere ai suoi fedelissimi”. Quindi don Rosario si trasferisce all’interno delle mura del maniero per offrire, sempre con l’immaginazione, uno spaccato della vita da feudatario. “La fantasia poi scorre- continua nella sua opera citata- sulla vita dentro il castello: ospiti illustri, lauti banchetti, musiche e serate danzanti. Nei mesi estivi, quando il Principe da Catania si trasferiva con tutta la famiglia a Biscari, il paese si componeva in un atteggiamento contegnoso fra il timore e l’affetto verso i Padroni e più ancora tutti restavano incantati dalla foggia dei loro vestiti”. Pertanto don Rosario accenna ad una ipotetica descrizione sul vestiario del Principe e della Principessa ispirandosi ai vari ritratti, dipinti su tela, presenti a Catania all’interno del magnifico Palazzo Biscari. ”Il Principe vestiva con calze di seta che gli coprivano le gambe fin sopra il ginocchio.Un farsetto ricchissimo, di seta damascata e ben ricamata con ampie rivolte di color cremisi all’estremità delle maniche, ricopriva la sua persona dal collo alla vita….una parrucca gli copriva il capo….. La Principessa vestiva un abito di velluto, reso più leggiadro da pizzi e da diversi fili di perle di inestimabile valore…”. Nella ipotetica descrizione, non può indubbiamente mancare il Principino, così immaginato. “Ad affascinare i ragazzi c’era poi il Principino; anche lui portava una lunga parrucca che gli scendeva fino a metà del petto, vestiva un ampio corpetto di velluto, ricco di ricami…le scarpe erano di pelle bianca con fibbia d’oro e al fianco sinistro gli pendeva uno spadino di parata….”. Terminata la descrizione dell’ipotetico vestiario, don Rosario ritorna alla descrizione degli ambienti di “Corte”. “Lavorare alla corte dei Principi- sostiene il compianto parroco- era un onore, ed erano in tanti ad averlo. C’era il personale addetto all’immediato servizio dei padroni: il maestro di casa, due camerieri, due paggi e un decano di sala, le ancelle, le nutrici, i segretari, il cappellano, il maestro di cappella, e poi tutta la schiera addetta alle cucine: il capocuoco, i cuochi, il magazziniere, il credenziere, i camerieri e gli inservienti dei pasti. Infine c’erano gli ufficiali, il capitano delle guardie, gli alabardieri, il capocaccia, il guardaportone, gli staffieri, i cocchieri, il mastro di stalla e in più tutte le damigelle”. Stupende descrizioni che ci riportano indietro di secoli con la mente e che purtroppo per svariati motivi sono destinate a svanire all’improvviso, come avvenuto per don Rosario il quale ce ne rende dotti con la sua ben nota vena poetica: “ A rompere tali sogni del passato è il vento di tramontana che qui, nel Piano di San Vincenzo, impera sovrano e, rotolando gelido attorno al vetusto maniero, sembra raccontare favole di fantasmi e di incantesimi, mai rotti di proposito dal risveglio della ragione, per non perdere il fascino di tante storie che sono da sempre fiorite nella fervida fantasia del volgo”.