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Acate. “Il Carnevale acatese tra miniminagghi e leggende”.

Salvatore Cultraro, Acate (Rg), 14 febbraio 2021.-  Continuando a sfogliare le vecchie copie del  giornalino parrocchiale, “La Parola”, edito dalla Parrocchia San Nicolò di Acate, nel numero del febbraio 1986 troviamo altre simpatiche notizie su come si viveva una volta questa particolare festa, sulle caratteristiche “miniminagghie” (indovinelli in dialetto) e su una inedita leggenda sul perché il Carnevale durerebbe tre giorni e non uno, raccontata da una anziana signora di Acate, della quale, nell’articoletto, non viene riportato il nome. “Una delle specialità del Carnevale- si legge nell’articolo pubblicato su La Parola del 1986- sono gli indovinelli, come dice Serafino Amabile Guastella, riportando le tradizioni dell’antico Carnevale della Contea di Modica. Prima del Carnevale e fino al giorno di Carnevale (dopo in quaresima era peccato), brigate di bambini si radunavano volentieri attorno ad una anziana zia, alla nonna o al gruppo di donne che sedute al sole, intente a filare, a far calze o altro, per ascoltare i miniminagghi stillati, come dice Carmelo Assenza, da secoli di osservazioni, di impressioni, di sprazzi di poesia che impegnava a gara l’intelligenza intuitiva o razionale e la fantasia di tutti i presenti. Anche quando la vera fame batteva alla porta, rabbrividendo di freddo e non c’era posto per sorridenti e serene riunioni, ecco, veniva Carnevale e ogni cruccio doveva andare via, vera igiene mentale, non prescritta da psicologi, ma intuita e vissuta dalla saggezza dei popoli”. Riportiamo di seguito, a titolo di curiosità, alcune “miniminagghie”, con (purtroppo) la soluzione nell’immediatezza. “Don Marianu, don Marianu, cchi faciti nta stu chianu; nun manciati e nun viviti e cchiù luoncu vi faciti” (l’asparago). “Miniminagghia, miniminagghia fa l’uovu nta pagghia” (La gallina). “Nto pugnu ci va e nta cascia no” (il fucile). “Rutulidda rutulava, senza iammi camminava, senza segghia si siria comu riavulu facia?” (il gomitolo). “A ttutti bbanni signura mi purtati, ma nno liettu ccu bbui nun mi vuliti” (le scarpe). “Haiu na palla ccu ssetti purtusa menza liscia e menza pilusa” (la testa). Queste le “miniminagghie” veniamo ora ad una inedita ed antica leggenda sul come i giorni di festa per Carnevle da uno, sarebbero diventati tre. Una leggenda riportata sempre dal vecchio giornalino parrocchiale “La Parola”, nel numero del febbraio 1986, e raccontata da una anonima anziana signora di Acate. “Prima Carnevale durava un giorno solo, domenica. Tutti coloro che quel giorno erano in paese potevano festeggiarlo. I massari lasciavano il bestiame in custodia a persone che avevano alle loro dipendenze e potevano con tranquillità darsi alla gioia. Ora c’era un picurarieddu che per badare al gregge non poteva andare al paese della sua famiglia neppure per portare da mangiare ai suoi piccoli e passò tutto il giorno di Carnevale piangendo a questo pensiero. L’indomani mattina il massaro ritornato in campagna diede una “vascedda” di ricotta al pecoraio dicendogli: vai a casa porta questa ai tuoi figli e fai conto che sia oggi Carnevale. U picurarieddu si avviò al paese e pensava sempre ai suoi figli e piangeva. Ad un tratto vide una luce forte che lo abbagliava, si fermò: era un uomo dall’aspetto di un vecchio che vedendolo piangere gli chiese il perché. Il pecoraio confidò il motivo del suo pianto e si sentì rispondere, <Iti o paisi, buon uomu, iti dall’autorità, marisciallu, parrucu, sinnicu e ricitici: Carnivali dura tri gghiorna, duminica, luni e marti e cussì vu guriti vui e i vuostri figghi!>. Il pecoraio ribattè, < Ma a mia nun mi crirunu>! <Iti  o paisi!> rispose il vecchio che all’improvviso scomparve. Il pecoraio ancora sbalordito per quella visione corse al paese dalle autorità raccontando l’accaduto.  Come, di certo quel vecchio era il Signore in persona, bisognava d’ora in poi festeggiare per tre giorni il Carnevale. E di tannu npuoi u Carnevali fu tri gghiorna!”.

 

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