Sabrina D’Amanti, 14 maggio 2020.- La pandemia che ci ha colpiti è un evento straordinario, imprevedibile che non può non segnare e non avere un forte impatto su di noi che lo stiamo vivendo. Non può non turbare, lasciare storditi, disorientati, impauriti. Rientra tra i fenomeni che in psicologia dell’emergenza vanno sotto il nome di traumi collettivi. Tutti quanti, contemporaneamente siamo stati attraversati dalla paura. Tutti quanti, contemporaneamente in tutto il mondo abbiamo visto incombere un nemico invisibile sulle nostre vite, abbiamo vissuto insieme la necessità dell’isolamento, e dell’evitamento per non rischiare il contagio. Con le dovute differenze e individuali capacità di resilienza, nessuno può essere attraversato da fatti del genere senza riceverne degli effetti. Infiniti gli aspetti che ruotano attorno a un problema planetario di tale portata, quello su cui però mi soffermo e su cui ritengo ci sia ora urgenza di intervenire, è quello dell’emergenza rischi suicidi. Qualunque periodo storico-sociale che si accompagni a lunghi momenti di crisi, comporta l’insorgenza di questo fenomeno. Sociologi come Durkheim, Merton spiegano come nei periodi di grande incertezza e disorientamento sociale (di “anomia”) dovuti a crisi economiche, culturali, di valori o di eventi imprevedibili, il tasso di suicidi cresca enormemente. Questo fenomeno purtroppo lo stiamo già adesso registrando. I numeri attuali sono nettamente superiori a quelli dello stesso periodo un anno fa. Qual è la crisi più forte che in questo momento sta raggiungendo chi crede che non ce la farà? È la crisi della speranza. La paura che il dopo risulti insostenibile, sconfina nella certezza che sarà così e offusca la mente ormai preda della disperazione. Senza voler sminuire l’impatto che eventi economici di tale portata inevitabilmente hanno, voglio andare verso una direzione alternativa a quella che la mente attraversa quando è offuscata dalle tenebre della non speranza. La speranza è la Vita stessa e nessun evento rovinoso può impedire di continuare a gioire di ciò che è Vita. La felicità è la Vita, non è nella materia. Di fronte al disastro economico probabilmente più grande di tutti i tempi, nessuno rimarrà abbandonato alla fame. I Governi non permetterebbero che chi vedrà la propria impresa arrivare all’estremo, rimanga abbandonato al suo destino, rischiando di non sopravvivere. La cappa che opprime la mente, non è solo la paura di non aver più cosa mangiare, è la pesante angoscia di vedere in fumo i sacrifici di una vita; di non poter tornare mai più a come si stava prima; il tarlo di aver fallito (errore interpretativo, gli eventi imprevedibili ci piombano addosso senza poterli impedire, né gestire). Quali parametri condizionano la lettura degli eventi e le conseguenti reazioni emotive? I parametri cognitivi nei quali siamo immersi, quelli che hanno modellato la nostra mente, le nostre emozioni e le nostre vite dal dopoguerra ad oggi. I criteri del materialismo, del consumismo, dell’Avere e del Possesso. In questo momento continuare a definire la felicità come funzione di ciò che si ha, è pericolosissimo. La felicità deve essere ciò che si è. Innanzitutto bisogna essere felici del fatto di essere Vivi, di aver vinto sul nemico invisibile, di non essere stati raggiunti, il resto troverà una soluzione. Il disastro economico coinvolge tantissime persone, una soluzione ci sarà. Siamo dentro a un trauma collettivo, serve un processo catartico che ci coinvolga tutti insieme contemporaneamente. Il dolore condiviso è un dolore più lieve. Serve che se ne parli, che lo si faccia con competenza. Serve un argine al rischio che il dolore strabordi. Serve che se ne parli tanto. Serve che chi è attraversato da questi pensieri non si senta solo, che senta una voce che parli la lingua della speranza.