Lieti nostalgici ricordi di Giovanna Laura Longo: “Il Patriarca San Giuseppe”.
Acate (Rg), 13 marzo 2015.- “Ogni paese, piccolo o grande, ha il suo giorno di festa religiosa e spesso la sua rievocazione nell’adulto rimane strettamente collegata con l’infanzia, età della fantasia e della speranza. E’ una chiara visione statica, immobile, nostalgica, che fissa per sempre un passato lontano nello spazio e nel tempo, che ritorna piacevolmente dinanzi a noi con immagini, gesti e suoni, che riacquistano vita nel dolce ricordo. Mi rivedo coprotagonista in un momento felice della mia vita e nel racconto di particolari episodi, che coinvolgono i familiari più cari e tutte quelle persone, che hanno lasciato un segno nella realtà sociale del mio paese. Ho vissuto quel periodo di vita senza pensieri e nell’ingenuità, fino a quando, divenuta “signorinella”, mi sono accorta che era succeduta a gran passi l’età dell’adolescenza. Il paese allora, mi piaceva molto ed esercitava su di me un forte fascino. Ancora piccola, attendevo con ansia il giorno festivo per indossare il vestitino e le scarpe nuove. Il Patriarca San Giuseppe, pur non essendo né il protettore, né il patrono di Acate, raccoglieva ogni anno generose offerte in denaro e diversi doni in natura. I preparativi della festa liturgica iniziavano ai primi di marzo e spesso anche prima, perché bisognava trovare in tempo i Santuzzi, rappresentanti “ la Sacra Famiglia”, e cucinare tutto quel ben di Dio, che avrebbe riempito i diversi piani dell’altare. La casa in quei giorni era in subbuglio! Tutti i componenti della famiglia venivano coinvolti nella preparazione dell’altare, delle pietanze e dei dolci; qualcuno, poi, per una settimana doveva rinunciare al riposo abituale e sistemarsi alla meglio, perché servivano proprio le tavole dipinte di verde, che un tempo, insieme ai trespoli, costituivano il letto. Mi ricordo che io aspettavo sempre trepidante e con crescente curiosità l’apertura della cascittina, dove veniva conservata la biancheria più bella, la “ dote” che gelosamente la nonna custodiva. Riposti con gran cura, si tiravano fuori le lenzuola e i servizi da tavola preziosamente ricamati, odorosi di spigo e sbiancati dall’azolo oltremare. Era bello rivoltare tra le mani, toccare con delicatezza quei tesori, frutto di paziente lavoro, spesso portati a termine sotto il saggio consiglio delle donne anziane più esperte o delle suore della Scuola di S. Maria, apprezzate nell’arte del ricamo. La nonna Pippina, alla fine, sceglieva sempre i capi di biancheria che non erano stati utilizzati negli anni precedenti, li disfaceva e controllava se qualche macchia di ruggine aveva rovinato i bei ricami. Essa tirava un profondo sospiro di sollievo, quando poteva risparmiarsi dal lavaggio e dalla faticosa stiratura con quel ferro a carbone che la faceva tanto disperare. Una volta, infatti, non riusciva a farlo accendere, perché c’era umidità nell’aria; un’altra volta, delle faville uscivano via dai fori del ferro e andavano a sporcare un angolo del prezioso capo; un’altra volta ancora, non bastando il fuoco per stirare tutta la parte ricamata, la nonna doveva accendere più volte il ferro. Insomma, per stirare bene un capo di biancheria ci voleva un giorno intero. La festa religiosa coinvolgeva rigorosamente tutti i Giuseppe, i Pinuzzi, i Pippini, i Pini, i Pippinieddi e gli artigiani falegnami. Si entrava nell’atmosfera festosa, quando il Parroco Don Vincenzo Caruso riuniva il sabato pomeriggio la Commissione per proporre ai vari componenti le vie del paese da percorrere e le famiglie da visitare per la questua della domenica, dando anche utili suggerimenti per la “ Cena” tradizionale del giorno seguente. Io attendevo, anche, di salire i gradini della sacrestia, attaccata ai pantaloni del nonno Pippinu, ma quasi sempre vedevo lo sguardo penetrante del Parroco fissare chi mi teneva stretta per mano e gli diceva: “ Pippinu, anche quest’anno hai portato con te Giuvannuzza! “. E il nonno con una risposta vaga lasciava intendere che non era riuscito a convincermi di rimanere a casa e che provava, invece, la gioia di portarmi con sé. Dopo i momenti noiosi delle tante raccomandazioni, degli accordi e delle proteste venivano, intanto, quelli più attesi per me. Io seguivo con sguardo attento il sacrestano Vicienzu Trullallà, che aveva una scatola tra le mani. Conteneva i santuzzi di San Giuseppe e tantissimi pacchettini, chiusi nella carta trasparente, che profumavano di talco, comprati la mattina nel negozio della signorina Nunziatina ‘a modista. Com’era bello spacchettarli tutti e vederne la varietà di colori: dal rosso al verde al giallo al blu! Solo allora il Parroco notava la mia presenza e riteneva utile consegnarmi un paio di forbici, dicendomi: “ Adesso, divertiti, tocca a te; tagliali tutti della stessa lunghezza…”. Risparmiava così agli adulti quel lavoro tanto noioso. Con quelle centinaia di metri di striscioline colorate io avrei dovuto fare tanti misureddi. La domenica mattina tutto assumeva l’aspetto di una festa gioiosa. Dopo lo sparo di alcuni mortaretti, che davano inizio alla festa, il nonno e io raggiungevamo in Piazza Libertà i membri del Comitato che, accompagnati dalla banda musicale, andando di porta in porta, avrebbero raccolto il denaro della questua. Io ero, allora, felice di poter girare per le vie del paese, visitare gli altari e assaggiare soprattutto i dolci, che qualche padrona di casa offriva in onore del Santo Patriarca. Ma il momento più gradevole e divertente per me era il pomeriggio, quando, davanti al portone della Chiesa Madre, si allestiva il palco per la “Cena” tradizionale. All’interno della piccola area, delimitata da pannelli di faesite, si trovavano su diversi tavoli tutti i doni offerti dalle varie famiglie per ringraziare o impetrare grazie da San Giuseppe. Che profumi deliziosi, che vivacità di colori, che sapori prelibati! Anch’io, sempre a fianco del nonno, me ne stavo tranquilla dentro il palchetto ad osservare, ad assaggiare qualche dolcino e a sentire Don Pippinu tri gghita, che metteva all’asta tutti i generosi doni pervenuti, con la sua voce chiara e forte: “ tremila uno…tremila due…tremila tre…Viva San Giuseppe” e così venivano aggiudicati al migliore offerente i prodotti dell’alimentazione, dell’agricoltura, della caccia, della pesca…Dentro il palco c’era di tutto: frittelle morbidissime ancora calde; cassate, cannoli, macallè e cassateddi di ricotta, guarnite di perline argentate, riavulina e di canditi zuccherati; torroni di mandorle e ceci, pagnuccata con codetta variopinta, mastazzola profumati di miele, cannella e scorza d’arancio pestata, biscotti con glassa al limone o al cioccolato, mpanate e cucciddati, giurgiulena croccante; e poi galline, conigli, pulcini, anguille, tenchie e mulietti, marvizzi e palummi; primizie di ortaggi, fave, carciofi, asparagi, cipudduzzi. Quasi tutti i doni offerti erano sistemati in cannistri, panareddi, tabbarè e nguantere, abbelliti da carta velina colorata e sfrangiata. Vari sono gli episodi e gli aneddoti curiosi, che hanno destato il riso o la rabbia di qualcuno…Me ne ricordo uno in particolare: L’imbonitore tesseva i pregi di due galline, con l’ova ‘nto culu, tenute a stento per gli artigli da un sottile spago, che girava e rigirava tra le mani, facendole svolazzare qua e là, quando ad un tratto, o per un movimento troppo brusco, o perché i volatili erano stanchi di subire continui scossoni, gli sfuggirono, andando a cadere prima su una torta di ricotta, appena comprata all’asta, e successivamente, volando senza meta, sui vestiti festivi degli astanti, sporcandoli. Fu un rincorrersi generale…Peccato per le due galline, che, dopo aver gustato un pò di libertà, andarono a finire in pentola, profumando con il loro brodo, aromatizzato di cannella, il desco di qualche famiglia. La sera, intanto, il Simulacro del Santo veniva portato in processione per le vie principali del paese, seguito da una moltitudine di fedeli. Il rientro in Chiesa veniva annunciato dai mascuna, che, me lo ricordo benissimo, erano più o meno forti e prolungati e colorati, a seconda dell’incasso in denaro della “Cena” pomeridiana. Al termine dei fuochi d’artificio, i componenti la Commissione della festa sistemavano il simulacro del Patriarca nel suo solito altare e poi passavano dalla Sacrestia per conteggiare, assieme al Parroco, la somma di denaro raccolta. La festa di San Giuseppe aveva ogni anno un bilancio attivo, ma il Parroco si lamentava sempre, potendosi fare di più. Comunque, alla fine tutti tornavano a casa soddisfatti e contenti: i membri della Commissione con qualche pacchetto di sigarette di marca in tasca e io con il solito pizzicotto sulla guancia, datomi affettuosamente dal Parroco Caruso”.