Mobbing. Deve risarcire il lavoratore il datore che rimane inerte di fronte alle vessazioni imposte a una dipendente dal superiore gerarchico. Per la Cassazione la durata e le modalità della condotta lesiva possono costituire prova della conoscenza del contesto di angherie. Il datore in questo caso il Comune ha l’obbligo di far cessare immediatamente le condotte vessatorie
Era da tempo che non si leggeva una così significativa sentenza in materia di mobbing, un fenomeno strisciante che lungi dall’essere sopito permane negli ambienti di lavoro nonostante la giurisprudenza sia altalenante nel considerare unitariamente le condotte vessatorie del datore o del superiore gerarchico ai fini del riconoscimento di un danno risarcibile in capo al lavoratore.In tale ottica, per Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, associazione che da anni tutela le vittime di questo male silenzioso, appare illuminante la recentissima sentenza della sezione lavoro della Cassazione 10037 del 15 maggio scorso che ha condannato il datore di lavoro, nel caso di specie un Comune che era rimasto inerte di fronte alle vessazioni imposte a una dipendente dal superiore gerarchico.Il datore di lavoro che sia un’impresa o un ente, infatti, una volta a conoscenza della situazione ha l’obbligo di intervenire immediatamente per far cessare la situazione e tutelare il dipendente.Ed è eloquente la Suprema Corte nell’enunciare tali principi nel confermare la condanna, in solido, al risarcimento del danno per mobbing inflitta a un Comune, nella fattispecie l’amministrazione comunale di Colonnella in provincia di Teramo, e a un suo dipendente autore materiale delle vessazioni.Nella fattispecie, sia il Tribunale di Teramo che la Corte d’Appello dell’Aquila, avevano accertato che la vittima era stata demansionata, emarginata e spostata senza plausibili ragioni da un ufficio a un altro ed infine posta sotto il potere gerarchico di colui che prima era un proprio sottoposto.Ma v’è di più. La perizia redatta in sede penale da uno dei massimi esperti di mobbing evidenziava che nella vicenda lavorativa della donna trovavano riscontro tutti e sette i parametri tassativi di riconoscimento del mobbing che sono l’ambiente, la durata, la frequenza, il tipo di azioni ostili, il dislivello tra gli antagonisti, l’andamento secondo fasi successive e l’intento persecutorio.Alla decisione della corte d’appello decidevano di ricorrere entrambe le parti ritenute responsabili. L’autore materiale delle condotte lesive ha contestato le conclusioni dei giudici di merito sostenendo che le risultanze processuali non facevano emergere una fattispecie riconducibile al mobbing, ma gli ermellini hanno respinto il ricorso sostenendo che dai testi escussi e dalle conclusioni della perizia effettuata emergeva con chiarezza che il comportamento posto in essere dal superiore gerarchico della vittima costituiva un classico episodio di mobbing. L’ente locale ha invece contestato le conclusioni della corte d’appello perché a suo dire non avrebbe motivato sulla responsabilità del Comune.I giudici di piazza Cavour nel decidere sul rigetto anche relativamente a questa doglianza, ha sostenuto che il Comune non poteva essere scriminato dal danno alla lavoratrice solo perché la condotta di mobbing proveniva da un altro dipendente in posizione di supremazia gerarchica rispetto alla vittima.Infatti, hanno concluso i giudici del Palazzaccio che non è possibile escludere la responsabilità del datore di lavoro ove questo sia rimasto “colpevolmente inerte alla rimozione del fatto lesivo”, facendo presente che “la durata e la modalità con cui è stata posta in essere la condotta mobbizzante, quale risulta dalle prove testimoniali, sono tali da far ritenere la sua conoscenza anche da parte del datore di lavoro, nonché organo politico, che l’ha comunque tollerata”.