Acate (Rg), 20 maggio 2015.- “All’ombra dei cipressi e dentro l’urne confortate di pianto forse il sonno della morte è men duro”? Certo che no rispondiamo con Foscolo alla domanda retorica del suo celebre carme I Sepolcri. Chi muore ha perduto per sempre il dono della vita, ha messo a tacere i sogni, le aspirazioni, le vanità , le lotte; chi muore cerca il riposo dalle cure e dagli affanni della vita terrena, chi muore è strappato all’affetto dei suoi cari e non sarà un sepolcro, una croce piantata sulla terra a rendere meno acuto il dolore, ma un sepolcro o una semplice croce serve ai vivi, se pur illusoriamente, a mantenere con i propri defunti “una celeste corrispondenza d’amorosi sensi”. Serve a ricordare chi non è più con noi, serve a non essere travolti dall’oblìo o dalla forza del tempo che allontana e offusca i ricordi. Il culto dei morti è stato sempre una componente essenziale di ogni civiltà e il sepolcro è il centro su cui si concentrano la pietà, i sentimenti, gli affetti. La magistratura di Catania però sembra non pensarla così e ha deciso che i corpi di centinaia di immigrati finiti in mare nel mese di aprile restassero lì a far da pasto ai pesci, non ha ritenuto opportuno, perché troppo costoso, che i sommozzatori si calassero in mare per restituire alle famiglie i loro congiunti, vittime non solo della fame, della guerra, ma anche del non rispetto, tagliati fuori anche da quell’umana pietà a cui ogni essere vivente ha diritto di aspirare. Oltre il mare stavano cercando una speranza, e forse con occhi fiduciosi guardavano ad una terra che avrebbe potuto offrire loro un futuro migliore, per giorni, stipati in un barcone hanno sognato di poter cambiare la loro sorte. Avevano quasi vinto la sfida con la fuga, con il mare che non aveva mostrato nessuna ostilità, che non era stato loro nemico, che aveva consentito un tacito lasciapassare, e che ora li accoglierà per sempre. I loro corpi non avranno sepoltura, non avranno identità. Erano uomini, donne, bambini.