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Trieste. Bracconaggio, la corte d’appello si pronuncia sulla riforma Cartabia. WWF e Legambiente: risultato importantissimo.

La recente sentenza n. 360/2024 emessa dalla Corte d’Appello di Trieste, Seconda Sezione penale, segna un punto fondamentale nella risoluzione di una questione sorta a seguito della riforma del processo penale c.d. Cartabia (d. lgs. 150/2022) per cui, seguendo una interpretazione non corretta, sarebbe risultato impossibile applicare il reato di “furto venatorio” contro i bracconieri, privando così le forze di polizia e la Magistratura di uno degli strumenti più efficaci nella lotta al bracconaggio.

“Esprimiamo soddisfazione per questo primo fondamentale traguardo – dichiarano le associazioni WWF Italia e Legambiente, costituitesi parte civile nel processo – . Questo risultato testimonia l’importanza del ruolo delle associazioni di protezione ambientale nello stimolare un’attenta interpretazione giurisprudenziale delle norme di tutela ambientale. Apprezziamo in particolare la lucida analisi dei giudici triestini che hanno accolto pienamente le nostre argomentazioni e confidiamo che anche la Cassazione esprima lo stesso orientamento”.

La Riforma Cartabia ha modificato i presupposti di procedibilità del reato di furto, prevedendo, per una numerosa serie di ipotesi, l’impossibilità per le procure di agire d’ufficio, cioè in maniera autonoma, e la necessità, per la parte che ha subito il furto, di presentare una querela contro l’autore del reato.

Una condizione di fatto impossibile quando il furto è compiuto ai danni dello Stato. Se ciò fosse stato intrepretato diversamente dalla Corte d’Appello di Trieste lo Stato (e non sarebbe chiaro chi nello specifico) sarebbe stato costretto a presentare una querela per denunciare a sé stesso il furto ai danni del proprio patrimonio. Un vero e proprio assurdo giuridico che ha già generato ripercussioni molto serie nel contrasto a fenomeni molto diffusi, come nel caso del bracconaggio.

La legge identifica infatti la fauna selvatica come patrimonio indisponibile dello Stato (Art. 1 L. 157/1992) e nel corso degli anni la giurisprudenza ha riconosciuto il principio secondo cui, chiunque, fuori dai casi consentiti (es. caccia), uccide o cattura un animale selvatico, commette un furto ai danni dello Stato, perché lo priva di una parte del proprio patrimonio indisponibile, con l’applicazione dell’aggravante prevista per i casi indicati all’art. 625 del codice penale, come il furto di cose esposte alla pubblica fede.

Si è quindi posta la questione se la perseguibilità d’ufficio dovesse essere esclusa anche per la fauna selvatica, comprendendola tra le cose esposte alla pubblica fede.

La Corte d’Appello di Trieste ha accolto l’interpretazione fornita dal WWF Italia e da Legambiente, costituitesi parte civile e assistite dall’Avv. Alessandro Giadrossi. Le associazioni hanno infatti segnalato come sia più corretto assimilare la fauna selvatica alle cose di pubblica utilità, considerati i diretti benefici che gli animali e, più in generale, la biodiversità, rendono alla collettività e che si racchiudono nel concetto di servizi ecosistemici.

I giudici di seconda istanza hanno dunque chiarito che “come correttamente argomentato dal difensore delle parti civili WWF Italia e Legambiente FVG, trattasi di furti commessi non solo su animali esposti per necessità a destinazione alla pubblica fede, ma anche su beni destinati a pubblica utilità, come recita la parte finale dell’art. 625 n. 7 c.p., trattandosi di fauna selvatica autoctona destinata alla fruibilità collettiva, a tutela della conservazione dell’ambiente naturale in tutte le sue componenti, vegetale e animale in primis” ed ha concluso ravvisando l’esistenza di una “duplice aggravante, con conseguente procedibilità d’ufficio dei reati de quo” .

Roma, 13 marzo 2024

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