Pietro Ingrao, il nostro Pietro. E il suo ultimo libro, “Volevo la Luna”, Casa Editrice Einaudi.
E’ innanzi tutto un libro di memorie, e quindi soprattutto autobiografico. Ma è anche storia di una generazione che ha conosciuto il fascismo e la lotta partigiana, la stagione della ricostruzione del Paese, la rottura dell’unità antifascista e gli anni dolorosi della guerra fredda. E’ storia d’Italia, raccontata con il taglio della storia vissuta e fatta, ma è anche indagine e curiosità, apertura verso il dubbio e la conoscenza.
E dentro i fatti e le memorie, scorre l’infinita tela degli uomini incontrati, delle persone amate, delle folle mobilitate, in un percorso dove ci siamo stati anche noi, per momenti o luoghi o idee o emozioni condivisi. Capisci allora che Pietro parla con noi, su di noi, del nostro popolo, delle sue drammatiche vicende, politiche ma anche sociali e umane. E rimane sempre comunque legato allo sguardo della memoria, che non consente citazioni esterne o estranee al vissuto diretto.
La storia personale di Pietro viene alla luce come esperienza di persona legata a precise ragioni di vita, a emozioni e a necessità specifiche , a presupposti indipendenti da scelte politiche predeterminate e orientate. Anzi, nella lontananza degli eventi, la memoria tende naturalmente a privilegiare, quasi per rivincita, la dimensione materiale dell’esistenza, i ricordi e le percezioni legate alla fisicità del vivere quotidiano.
E questa fisicità del vivere, divenuta forse essa stessa codice della sua memoria, viene nel libro rappresentata e dichiarata, nell’ampiezza di una vita, tutta immersa nel suo tempo, ricca di ragioni, sentimenti e affetti.
Sotto la spinta di una particolare e necessitata inclinazione alla lettura della propria vicenda politica e umana (e della nostra), Pietro snoda la matassa della memoria e degli affetti, delle decisioni assunte e delle occasioni perdute, delle battaglie vinte e dei compagni caduti, sullo sfondo di un mondo che, nel fragore della guerra nazi-fascista, passo dopo passo, incontro dopo incontro, lo spinse all’impegno politico e alla clandestinità dell’antifascismo.
“Là è Lenola, dove sono nato”, e là gli fu dato vivere.
Le ragioni della politica, di fronte ad una memoria abbarbicata alla propria verità, lo riportano alle radici di tutte le scelte e di tutte le responsabilità. Le prime esperienze conoscitive e affettive, in quella terra che va da Napoli al Minturno, segnano per sempre il suo rapporto con il mondo, con la natura, con gli uomini.
Gli uomini e il contesto in cui vivono, le forme del paesaggio, le stesse abitudini alimentari, segnate dalle differenze di ceto e classe sociale, il carattere persino di quei contadini poverissimi, di poche parole e taciturni, ma leali e fedeli, che incontrerà negli anni della clandestinità, in Calabria, costituivano il contesto da cui assorbiva i dati e le emozioni di una visione risentita e amara dell’esistenza, connotata da ingiustizie insostenibili e da attese di riscatto antiche.
Le stesse condizioni meteoriche talvolta sembravano vestirsi di rabbia e di protesta. Così, nelle prime battute del libro, descrive il tempo e i luoghi: “A novembre tutto sembrava allontanarsi, fuggire. Apparivano le brume, con i loro grembi di latte a metà costa, e si intrecciavano con tempeste di vento, urli furenti, sibili d’un accaduto rabbioso e improvviso, quasi una rivolta”.
Un libro lungo una vita, raccolto in quarantanove capitoli.
Tante cose capisci, della storia del secolo e dei nostri anni. La narrazione incrocia la Grande Storia, del fascismo e del nazismo, di Stalingrado e del Viaggio lungo di De Gasperi in America, dell’attentato a Togliatti e della battaglia contro la legge truffa nel 1953, della guerra in Corea e del Vietnam, della rivoluzione ungherese e dell’invasione sovietica della Cecoslovacchia, di Praga, del compromesso storico e dell’assassinio di Moro: ma la Grande storia non è mai letta separatamente dalla vita sua e dei milioni di uomini, che hanno vissuto gli anni e i giorni del XX secolo, dei grandi uomini di stato così come degli umili contadini della Campania o della Calabria o della Sicilia; o degli operai che, nel Marzo del 1943, diedero, con lo sciopero generale, una spallata decisiva al fascismo, o dei metalmeccanici che nel 1969, con le loro lotte, aprirono la strada di un profondo cambiamento nella vita del nostro Paese.
Ma le sorprese del libro sono concentrate nei capitoli marginali, quelli dove si raccontano i fatti minori, le relazioni personali, gli anni dell’infanzia e del liceo, l’amore per il cinema, la famiglia, l’amore per Laura, l’incontro con la malattia e con la morte, e poi la gioia di vivere e i figli, le gite al mare, strappate avidamente agli impegni della politica e della professione giornalistica.
E poi la restituzione di tanti nomi, dirigenti del Pci sino agli anni ’80, a una concreta dimensione politica e umana. Il gruppo romano, con Bufalini, Lucio Lombardo Radice, Aldo Natoli, Giaime Pintor, Antonio Amendola, e poi gli altri a Milano , Elio Vittorini, Gillo Pontecorvo, Giansiro Ferrata, Mario Alicata, Totò Di Benedetto, siciliano come Girolamo Li Causi.
Il partito dei giovani, che magari avevano partecipato ai vari Littoriali e che maturava giorno per giorno le scelte dell’impegno militante contro il fascismo. Certo, i grandi eventi internazionali, con alti e bassi, condizionarono la loro formazione, e tutto avvenne all’interno di drammatiche lacerazioni che non concedevano spesso alternative. E Ingrao, di fronte all’esito rovinoso dello stalinismo, consapevole ormai che il difetto stava all’origine, nella dittatura di un unico partito, interroga onestamente la sua coscienza, e scrive, con riferimento ai processi staliniani del 1936:
“Quel sanguinoso conflitto interno non lo vidi, o non lo compresi. Nel gruppo di amici con cui iniziavo a ragionare della politica nel mondo- che io ricordi- non discutemmo quasi mai su quei processi staliniani, su quelle violazioni inaudite di diritti umani elementari. Forse perché ci sovrastava un massacro più grande o forse per timore di mettere in dubbio la nuova fede che prendeva la nostra vita”.
Sul piano intellettuale e politico, ho letto con grande stupore e rispetto il capitolo dedicato alla rivoluzione ungherese. L’agguato all’Ungheria, così si intitola. Ingrao allora, pur tra esitazioni e titubanze, condannò la rivolta. Ma i carri armati sovietici intervennero e” Presto a Budapest dilagò la tragedia”. La repressione fu brutale. Il Capo del Governo Nagy fu arrestato e poi fucilato.
Fu un fatto gravissimo e costituì anche una grande occasione perduta per una svolta, che il Pci avrebbe compiuto solo nel 1968, con la condanna ferma dell’invasione sovietica della Cecoslovacchia.
“Ho sbagliato”, scrive Ingrao, “anche quando ho abbandonato il gruppo del Manifesto e ho votato per la loro radiazione dal Pci “. E confessa: “ Sono stato un vile “.
Pietro Ingrao ci ha insegnato molte cose. E fra i dirigenti del vecchio Pci era tra i più aperti e innovativi. Ricordo un suo intervento a Palermo sulla questione agraria e sulla necessità di individuare nuovi soggetti e nuove forme di intervento per l’agricoltura. Una cosa strabiliante.
Tante suggestioni, curiosità, valori.
Ma ho apprezzato la grande forza di un uomo che sa riconoscere gli errori e le debolezze. Le sue e le nostre. Tutto in un libro, da leggere, che fa i conti con la nostra storia e la nostra memoria.
Francesco Aiello