Vittoria. 25 luglio 2022
HO VOLUTO APPROFITTARE DI UN POST UN GIOVANE DOCENTE, FIGLIO D’ARTE. SI CHIAMA DANIELE LIBERTO, IL PAPA’ ALDO, DOCENTE DI UNA MATERIA CHE AI MIEI TEMPI SI CHIAMAVA:EDUCAZIONE FISICA, RECENTEMENTE SCOMPARSO, “INVENTÒ” IL TENNIS A VITTORIA, LA MAMMA, LIDIA FERRIGNO, DOCENTE DI MATERIE LETTERARIE, SCRITTRICE E POETESSA, GLI HANNO TRASMESSO IL MEGLIO DI LORO STESSI. DANIELE È DOCENTE DI MATERIE LETTERARIE AL LICEO MAZZINI. OGGI HA PUBBLICATO QUESTO POST SU FACEBOOK, MA IO L’HO “RUBATO” E LO PUBBLICO SUL GIORNALE ONLINE ITALREPORT. SPERIAMO CHE L’AUTORE NON MI DENUNCI.
“Oggi voglio parlare della vittoria di Massimo Stano nei 35 km di marcia ai Campionati Mondiali di atletica in corso ad Eugene, nell’Oregon. C’è qualcosa di epico nell’atletica, nata con l’uomo. E c’è qualcosa di epico anche nella fruizione personale e televisiva di questo sport. Come tutto ciò che rimanda agli albori della storia umana acquista un significato mitico, tanto che sarà facile dimenticare un giorno le saghe di Harry Potter e del Signore degli anelli, ma sarà impossibile perdere memoria della Bibbia, dei poemi omerici, delle avventure di Gilgamesh e di tutto ciò che ha a che fare con miti, eroi e popoli, allo stesso modo (in scala molto più ridotta) mi capita di ricordare per filo e per segno le gare della “mia” infanzia, e affidare alla memoria breve quanto profuma di attualità o di passato recente. Così ricordo per filo e per segno i passi della rimonta di Pietro Mennea nei confronti dello scozzese Alan Wells all’Olimpiade di Mosca del 1980, quella del boicottaggio (e in verità sento ancora il crescendo delle urla di mio padre che accompagnano il sorpasso della “Freccia del Sud” sul filo di lana). Ho nove anni, e vedo ancora un semisconosciuto Maurizio Damilano che, sempre a Mosca, entra nello Stadio incredulo per una inaspettata vittoria nei 20 km di marcia, fra guardie rosse con il colbacco e spie del KGB un po’ dovunque. Ricordo ancora il tempo, i frazionisti e il posto (la casa di campagna) in cui su uno scassato televisore in bianco e nero seguo la vittoria della nostra 4×400 in Coppa Europa (che l’Enciclopedia dell’Atletica che compravo a dispense ogni sabato, “Conoscere l’atletica”, ribattezzò “l’acuto di Zagabria”). La voce di Paolo Rosi mi annuncia il trionfo di un italiano sui 10000 durante i primi Campionati del Mondo del 1983 (“Cova…, Cova…, Cova…!”, che all’epoca agganciai inevitabilmente al triplice “Campioni del Mondo!” di Nando Martellini: che generazione di telecronisti!). E ancora l’infinito duello fra Powell e Carl Lewis nella notte di Tokyo del 1991, che da noi era mattina, e io dovevo accompagnare mia madre e mia sorella con l’auto a mare, e per perdermi il meno possibile della gara feci una vera e propria gimkana con la scassata 500 di famiglia mettendo a repentaglio l’incolumità di ¾ di essa. Era la gara in cui crollava l’8.90 di Beamon di Città del Messico del 1968, il “salto nel XXI secolo”; era la gara in cui Powell, Lewis e un vento ballerino riscrivevano la storia della specialità. Erano i miei 19 anni (non felicissimi, in verità, ma questa è un’altra storia). Da allora ho continuato a seguire l’atletica, per me una religione, tutt’altro che laica, peraltro; anzi, in odore di ascesi e misticismo. Di molte gare successive ricordo vincitori, tempi e piazzamenti, certo. Altre mi hanno entusiasmato: come dimenticare il nullo “fantasma” che costò l’oro a Fiona May a vantaggio della Montalvo ai Campionati mondiali del 1999; o, nella stessa occasione, la squalifica di Fabrizio Mori nella semi-finale dei 400h e la sua inaspettata riqualifica, prologo alla conquista di un oro strepitoso. Ma la magia dell’atletica vista da bambino era svanita, come svanisce l’età dell’oro nel momento in cui prevalgono i metalli meno pregiati, finché la dura età del ferro detta le sue leggi feroci. Svanisce la poesia, la fantasia con cui tramandiamo alla memoria (“imperitura”, si diceva una volta) le imprese degli eroi; comincia la prosa. Si accumulano Campionati su Campionati, gare su gare, e si ha l’impressione del già visto e già vissuto. Nulla che stimoli la tua immaginazione, nessun ricordo che accompagni più la tua esistenza con il nitore di cui solo l’infanzia brilla. Intanto il tempo passa. O forse lui rimane fermo, e sei tu che passi. E invece oggi è successa una cosa che mi ha riportato a quelle immagini del passato che mi accompagnano ancora oggi, sempre. Massimo Stano non ha vinto solo una gara di atletica. Ha recitato il ruolo dell’eroe in un poema epico in cui non ci sono comprimari, ma solo altri eroi che hanno dato il massimo (“hanno gettato il cuore oltre l’ostacolo”, qui la retorica è d’obbligo) per rendere ancora più bello (come diceva l’aedo di Zante che si studia al liceo, il cui carme rappresenta la vetta della letteratura italiana e uno degli 8000, per restare nella metafora alpinistica, di quella mondiale) il trionfo dell’atleta italiano. La 35 km è stata un vero e proprio agone, una corsa ad eliminazione che ha riprodotto le vecchie logiche dei duelli omerici. Dopo la sparata iniziale di un concorrente giapponese, attorno ai 20-25 km è apparso chiaro che la vittoria sarebbe stata un affare privato a 5: il nostro Stano, il nipponico Kawano, uno svedese, l’ecuadoriano Pintado e un cinese. L’andino Pintado ha tirato per qualche km, con la sua andatura in cui era rappresa idealmente tutta la sofferenza, storica e attuale, di un popolo che dopo i fasti precolombiani, dai conquistadores in poi ha avuto un ruolo gregario ma sempre dignitoso. Fatica, Ande e duro cammino per la sopravvivenza: il Sudamerica in questi Campionati mondiali ha già vinto 2 medaglie nella marcia, la specialità che esprime meglio il genius loci di un popolo non abituato alle comodità. Il primo a staccarsi è stato il cinese, altro rappresentante di gente che alle lunghe marce ha fatto l’abitudine. Ben presto però anche Pintado non ha retto i ritmi imposti alla gara dal nostro Stano, mentre Kawano faceva una gara assolutamente passiva succhiando la ruota all’italo passatore e il nordico aveva stampato in volto una smorfia che rendeva l’idea della pura fatica. Ma non mollava. Passa il terzetto al traguardo degli ultimi 7, 6, 5 km. Ogni giro è lungo un km. Sul rettilineo opposto a quello d’arrivo (il circuito consta di 2 rettilinei e 2 tornanti) c’è il rifornimento d’acqua e di maltodestrine. Stano prende ad ogni passaggio una borraccia d’acqua, ma non beve: si bagna, dalla testa ai piedi. La gara è cominciata alle 6.15 di Eugene con la temperatura di 12 gradi (freschetto), ma durante le 2 ore di svolgimento c’è stato un balzo termico di almeno una decina di gradi. La competizione entra nella sua fase più calda. Lo svedese annaspa, non intende perdere il contatto dagli altri 2 duellanti, ma ad un certo punto si stacca. L’oro è una questione fra Stano e Kawano! Come sempre, l’epica raggiunge la sua massima espressione nei duelli: Achille ed Ettore, Ettore e Patroclo, Enea e Turno, Tancredi e Clorinda (qui con la complicazione dell’amore); spada, primo sangue, ultimo sangue, pistola, cambiano le modalità ma l’essenza rimane quella di sempre: mors tua, vita mea, non si fanno prigionieri. Mancano 2 km: Stano va in forcing, l’azione è decisiva; Kawano boccheggia, ma in questo momento è un samurai che farebbe harakiri pur di non perdere. Rimane attaccato con la forza di una volontà che lo spinge più di quanto potrebbero le sue gambe: c’è l’onore di un popolo, il senso del sacrificio che spinse tragicamente un popolo a non riconoscere una sconfitta in guerra quando la guerra era stata ormai perduta. Kawano in questo momento si rifiuta di ammettere la sconfitta: tre, quattro metri di distacco, ma si fa nuovamente sotto. Riceve un richiamo per sbloccaggio del ginocchio, cede un po’ di terreno, ma si rifà sotto. Riceve il secondo richiamo, ha perso lucidità, ormai è la volontà che comanda: mente e corpo sono andati. Stano imbocca il rettilineo d’arrivo, ha un vantaggio di qualche metro, e che ti combina l’italiano? Si avvicina alle transenne per raccogliere il tricolore da esibire dopo l’arrivo. Nel frattempo Kawano con le ultime, residue energie nervose si riavvicina e tenta l’all-in, e nel momento in cui Stano taglia il traguardo il giapponese è dietro di appena mezzo metro, e si esibisce in un tuffo disperato che non gli consente però di sottrarre la vittoria al suo rivale. Io esulto, Stano no: la sua prima preoccupazione è quella di soccorrere l’avversario che è a terra e sta battendo i pugni sull’asfalto per la disperazione. Ma è un momento: il giapponese accetta l’abbraccio di Stano, che a questo punto è libero di esultare avvolto nel tricolore. Anche Kawano si ammanta della bandiera del sol levante, mentre arriva lo svedese con un copricapo con le corna da puro vichingo. Bravo, dopo il bronzo della 20 km conquista un altro bronzo. È felice, la sua marcia di sofferenza è stata alla fine premiata. Arriva anche Pintado, il corriere delle Ande, e poi anche il cinese, stravolto, il primo che si era staccato dal gruppo sotto le sferzate di Stano. Sono tutti al traguardo, si abbracciano, come pugili che se le sono date di santa ragione ma che sanno di avere condiviso la più sublime delle condivisioni: quella della lotta, quella della sopravvivenza. Non dimenticherò.
Grazie ragazzi. Sipario”.